
Ottobre 2024. Il campo di Jabalya è dichiarato zona militare. Viene posto sotto assedio. L’IDF vuole liberare questa zona della Striscia di Gaza di tutta la sua popolazione. Chi non è riuscito a fuggire viene quindi privato di qualsiasi aiuto umanitario. Chi è rimasto nel campo non riceve né cibo né acqua, sotto continui bombardamenti ed esposto al fuoco dei cecchini. Un assedio che si estende a tutto il nord del territorio. Le rare immagini che ci giungono sono insopportabili. I cadaveri, a volte interi, altre no, sono disseminati lungo le strade deserte. I vivi non girano più nel campo. Davanti all’ospedale Kamal Adwan, i genitori stringono i corpi senza vita dei loro figli e neonati. Corpi segnati dalla fame e dalla disidratazione. Gli occhi sono vuoti, senza rabbia e senza dolore. Alienati.
In che modo raccontare la particolarità di questo assedio e la sua violenza senza contravvenire alle regole che Orient XXI si è imposto in termini iconografici: non mostrare cadaveri, né sangue, né persone mutilate? Ma anche non pubblicare foto che possano attentare alla dignità della persona, senza sapere realmente che significato dare a questo concetto. Come ha sottolineato Françoise Feugas, ex segretaria di redazione e membro del comitato di Orient XXI:
Che cosa attenta alla dignità dei palestinesi in questa tragedia? – nella tragedia in generale. Il fatto che si mostrino persone che piangono, soffrono, si aiutano o si consolano, bambini feriti, con facce serie, è un attentato alla loro dignità? Uomini che trasportano i feriti, i moribondi, i morti, altri disperati o in preda al terrore?

Sono queste le domande che la redazione si è posta spesso dopo il 7 ottobre 2023. Cosa possiamo mostrare? Cosa dobbiamo mostrare? A che scopo? Questioni che non riguardano solo la Palestina o Gaza in particolare. Questioni simili sono nate anche durante i conflitti in Siria e Yemen, ad esempio. Tuttavia, la guerra genocida attualmente in corso, pur se estremamente documentata – e in diretta –, viene minimizzata dai media e sostenuta politicamente e militarmente dall’Occidente. Le scelte iconografiche operate dalla redazione sono quindi state fatte alla luce di questo contesto.
Come si può morire se non si vive?
Se le vittime israeliane del 7 ottobre hanno un volto, un nome e una storia, le vittime palestinesi esistono solo n termini numerici. Ma non sono solo anonimi, sono invisibili e senza voce. È per questo motivo che, a partire da febbraio 2024, Orient XXI ha dedicato uno spazio al giornalista palestinese Rami Abou Jamous che, grazie a una scrittura precisa e coinvolta emotivamente, descrive le devastazioni della guerra genocida israeliana nella Striscia di Gaza usando l’“io” e il “noi”.
La sua scrittura guida anche le scelte iconografiche del giornale: le foto scelte devono esprimere questo “io” e questo “noi”. Perché, se riconosciamo questo “io” nell’Altro, allora riconosciamo che ogni persona fotografata ha una propria storia, una vita fatta di sogni, speranze, errori, paure... Che esiste anche al di fuori della tragedia e che non si limita all’orrore e al dramma.

Il 7 ottobre 2023, l’AFP ha scelto di oscurare i volti delle vittime israeliane. Le foto che abbiamo visto dopo sono quelle precedenti ai massacri e ai rapimenti: lì appaiono sorridenti, pieni di gioia e di vita. Nulla del genere per le vittime palestinesi da parte dei media. Esistono delle foto, ma circolano sui social solo grazie agli account degli utenti palestinesi. In un certo senso, è un altro modo per negarne l’umanità. I palestinesi possono morire se non hanno mai vissuto?
È il motivo per cui Orient XXI si sforza di mostrare foto della vita quotidiana – pranzi in famiglia, feste, giochi – sia durante la guerra, sia quando sembra lontana, come nell’articolo di Leila Seurat sulla colonizzazione del popolo palestinese. Tutto senza, speriamo, cadere nel sentimentalismo o nella fotografa di “resilienza” – termine che, d’altra parte, cerchiamo di non usare sul nostro giornale.

Nei testi di Rami Abou Jamous, la guerra – il “gazacidio”, per riprendere le sue parole – è ovunque e rende tutto complicato: l’accesso agli aiuti alimentari, le amicizie e le relazioni familiari, gli orari... Malgrado tutto, non impedisce però la vita di tutti i giorni, anche se stravolta. La guerra è solo raramente spettacolare, le sue tracce sono interiori, in ciò che arreca alle persone, nel modo in cui le cambia. Sono queste tracce della vita quotidiana in guerra che cerchiamo di mostrare visivamente, perché sono la testimonianza della vita che resiste contro la volontà di annientamento e disumanizzazione.
![[fr] Des personnes en prière dans une église, une femme lit un livre, ambiance solennelle. [it] Persone che pregano in una chiesa, una donna che legge un libro, atmosfera solenne.](IMG/jpg/afp__20240107__349n6zu__v4__highres__topshotpalestinianisraelconflictreligion2.jpg)
Porre l’accenno sulla vita quotidiana permette anche di adottare lo sguardo palestinese, e non quello del guerrafondaio o dell’osservatore esterno. È così che i palestinesi diventano i soggetti della fotografia, e non solo la guerra. Il divieto di ingresso nella Striscia di Gaza ai giornalisti stranieri, emesso dalle autorità israeliane dopo il 7 ottobre 2023, ha paradossalmente permesso un tale cambio di prospettiva. In effetti, le devastazioni della guerra vengono quasi esclusivamente documentate dai giornalisti e fotoreporter di Gaza. Tuttavia, molti, non solo in Francia, hanno osato mettere in discussione la loro professionalità, o addirittura il loro ruolo, senza però contestare la decisione israeliana o mobilitarsi quando i loro colleghi venivano deliberatamente uccisi dall’IDF. Dall’ottobre 2023 ad oggi, sono morti più di 210 giornalisti.
Uscire dall’immaginario delle rovine
Un punto su cui cerchiamo di essere attenti è anche quello di non ricorrere sistematicamente alle foto di rovine per illustrare l’impatto della guerra e l’entità della distruzione. In un immaginario occidentale plasmato da una cultura pop che mette regolarmente in scena le devastazioni fittizie delle sue grandi città, le reali conseguenze possono essere realmente comprese? Questa stessa cultura pop ci ha abituato a considerare le grandi distruzioni come un “happy end” poiché permettono la vittoria degli “eroi”. In questi film kolossal, la vita di pochi vale quanto la vita di migliaia di altri. E, in ogni caso, questi ultimi vengono cancellati. Si vede mai qualcuno morire tra le macerie del suo palazzo dopo che sono intervenuti gli “eroi”? È questo l’immaginario a cui attingono regolarmente i soldati dell’IDF quando riproducono, attraverso video TikTok e Instagram, i codici cinematografici di quei film d’azione.
Sarebbe un errore sottovalutare il peso di questa cultura pop sulla nostra percezione. Ad esempio, l’immagine distorta dallo sguardo israeliano prima del 7 ottobre di Gaza – in particolare dalla serie Fauda, disponibile su Netflix in attesa della quinta stagione – era già quella di un territorio senza Storia ridotto a una sorta di gigantesca baraccopoli. Per molti, non c’è nulla da distruggere nella Striscia di Gaza, non ci sono università, né centri culturali, né scuole, né monumenti storici.

E poi, questa domanda assillante e scomoda: quando vediamo questo urbicidio, rimaniamo scioccati o affascinati? La distruzione di un intero quartiere in pochi istanti mostra tutta la potenza impressionante dell’IDF. Ricorrendo alle immagini delle rovine, non faremmo altro che mostrare la forza israeliana. Inoltre, se da una parte le foto mostrano la violenza israeliana, dall’altra non indicano mai, paradossalmente, i colpevoli. Le bombe cadono – letteralmente – dal cielo, ma noi non vediamo mai alcun responsabile di quegli atti. La guerra appare quindi come una catastrofe naturale, con gli stessi scenari e le stesse conseguenze. Senza un contesto, è possibile distinguere le rovine di Gaza dalle tracce di un terremoto?
Mostrare l’orrore
Non è possibile però raccontare visivamente la guerra – che si estende anche fino alla Cisgiordania occupata – solo sotto forma di traccia. Ci sono i vivi, naturalmente, ma ci sono anche i morti. All’inizio di marzo 2025, abbiamo ricevuto un reportage fotografico sull’operazione militare lanciata dal governo israeliano nel nord della Cisgiordania. In una delle foto, si vede una bambina avvolta in un sudario con i colori della bandiera palestinese. È circondata da uomini, adolescenti e bambini che vegliano sul suo corpo. Il suo nome è Layla al-Khatib, due anni, morta il 26 gennaio 2025. Era stata colpita alla testa da un proiettile esplosivo sparato da un cecchino israeliano. Dovevamo pubblicare quella foto? E come dovevamo pubblicarla?
![[fr] Un enfant entouré d'adultes, emmailloté dans un drapeau palestinien. Atmosphère solennelle. [it] Un bambino circondato da adulti, avvolto in una bandiera palestinese. Atmosfera solenne.](IMG/jpg/9-2.jpg)
“Non mi piacciono le foto in cui si vedono i bambini”, ha detto Martine Bulard, membro del comitato di redazione, “ma dobbiamo anche confrontarci con la realtà della guerra. E in questa guerra, ci sono bambini che stanno morendo”. Con Sarra Grira, caporedattrice di Orient XXI, ci siamo chiesti se i nostri lettori avessero bisogno di confrontarsi con questa realtà. Il nostro è un giornale indipendente che non gode del grande pubblico dei mezzi di comunicazione di massa. La gran parte dei nostri lettori conosce la nostra linea editoriale ed è già informata su ciò che sta accadendo in Palestina. Ma se abbiamo deciso di pubblicare quella foto, è perché il fotografo palestinese, Mohammad Mansour, mantiene uno sguardo empatico, né voyeuristico né morboso su quella veglia funebre. La composizione della foto dà l’impressione che il fotografo sia parte della scena, e non un freddo osservatore esterno. Anche se l’abbiamo pubblicata in apertura al reportage fotografico, abbiamo però deciso di non metterlo in prima pagina per evitare che il corpo di quella bambina fosse visibile a tutti senza contesto, sulla home page del sito o sui social.

Per comunicare l’orrore, il lutto o il dolore della perdita, cerchiamo anche di essere attenti a non mostrare solo donne e bambini. A volte tendiamo a usare la figura della madre con bambino come nella Pietà – un dolore dignitoso nel suo silenzio, secondo i codici occidentali – o il volto di un bambino per illustrare l’ingiusta violenza della guerra che colpisce i civili innocenti. Ma questo significa che gli uomini – adulti o adolescenti – non sono in grado di rappresentare questa stessa violenza cieca? Che quindi non sono né civili né innocenti? Allo stesso modo con cui l’IDF separa donne e bambini dai civili maschi di età superiore ai 16 anni durante le evacuazioni, o nel conteggio delle vittime che si concentra solo su donne e bambini, noi separiamo gli uomini dal resto della popolazione. Noi cerchiamo di non metterli nelle foto.

Ci sembra anche essenziale continuare a mostrare dei bambini. Si è spesso sostenuto, per limitarne il numero, che le foto di bambini – feriti o meno – costituirebbero più un “obiettivo politico” e “militante”, per usare le parole di Le Monde, che un’informazione, perché verrebbero utilizzate per suscitare un’emozione più immediata1. Secondo l’UNICEF, il Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia, al 23 gennaio 2025, sono oltre 14.500 i bambini uccisi a Gaza dall’inizio della guerra, 25.000 feriti e 17.000 separati dai loro genitori. “È più alto del numero totale dei bambini uccisi in quattro anni di guerre in tutto il mondo”, ha lanciato l’allarme l’organizzazione. Il 31 marzo, l’UNICEF ha registrato almeno 322 morti e 609 feriti tra i bambini dopo la rottura del cessate il fuoco da parte di Israele, “una media giornaliera di circa 100 bambini uccisi o mutilati negli ultimi dieci giorni”. In queste condizioni, non parlarne, non mostrarli, non è forse un “obiettivo politico”? Dopo averli contestati, usando l’abietto neologismo di “Pallywood”2, ora non dovremmo più vederli? Ma i bambini palestinesi e libanesi travolti dalle guerre israeliane sono ancora visti come bambini? Abbiamo qualche dubbio, visto il titolo di Le Parisien del novembre 2024: “Un libanese di due anni trovato vivo”.
Continuare a mostrare i palestinesi, vivi e morti, qualunque sia la loro età o il loro sesso, significa quindi continuare a fare informaziine senza cedere a discorsi che li disumanizzano.
1Si veda l’articolo di Raphaëlle Bacqué, pubblicato su Le Monde il 28 novembre 2023: “Israele-Hamas: ’Le Monde’ di fronte alla guerra delle immagini” dove scrive: “Bisogna diffondere queste foto di bambini feriti o morti che ci arrivano a centinaia da Gaza e sono diventate un oggetto politico? Lemonde.fr, che aveva optato per un’immagine in cui un gruppo di uomini seppelliva un bambino avvolto in un sudario – le donne sono spesso assenti dalle foto a Gaza – l’ha rimossa, temendo una strumentalizzazione da parte dei militanti pronti a esaltare i “martiri” palestinesi”.
2La contrazione di Palestina e Hollywood è stata usata per sfidare la veridicità delle fotografie e dei video dei bambini uccisi.