
L’ultimo round dell’apparentemente inevitabile “scontro di civiltà” tra la “civiltà giudaico-cristiana” e il mondo islamico si gioca forse con l’entrata in scena degli Stati Uniti a sostegno dell’attacco israeliano contro l’Iran. Certo, è chiaro, anche Tel Aviv possiede delle testate nucleari e un programma nucleare che non è mai stato controllato dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA). Sì, ma il punto è che, a differenza della Repubblica islamica, Israele è una democrazia, e per di più occidentale – scusate il pleonasmo. Un tale postulato – che non tiene nemmeno conto del fatto che si tratta di uno Stato dov’è in atto un sistema di apartheid in cui la disuguaglianza tra i cittadini è sancita dalle leggi fondamentali – è sufficiente per assolvere Israele da qualsiasi violazione del diritto internazionale. Quest’ultimo agisce infatti in nome della democrazia e del Bene, e non in nome di un’ideologia islamista come quella dell’Iran.
Come ha ricordato Bertrand Badie sull’emittente France 24 la sera dell’inizio dell’aggressione israeliana, “l’unico Paese che ha usato l’arma atomica nella storia era una democrazia”. Prova, qualora ce ne fosse stato bisogno, che questa forma di governo, per quanto virtuosa, non è immune dalla barbarie. D’altronde, basta osservare il caos in cui Israele – e per estensione gli Stati Uniti e l’Europa – hanno fatto precipitare la regione per chiedersi: quali sono oggi i Paesi che rappresentano una vera minaccia per il Medio Oriente, o addirittura per il resto del mondo? E chi può davvero credere che Benjamin Netanyahu, accusato dalla Corte Penale Internazionale (CPI) di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, non deciderà di usare la bomba atomica per “difendersi”?
Da 20 mesi, la risposta dell’Iran alle operazioni israeliane è stata caratterizzata da cautela e prudenza, con l’obiettivo di evitare una guerra regionale, anche a costo di rinunciare a uno dei suoi principali bracci armati, Hezbollah. Non è cambiato nulla dall’aprile 2024, quando la missione diplomatica e consolare iraniana venne bombardata da Israele a Damasco: la risposta di Teheran, quasi per salvare le apparenze, fu l’invio annunciato di 200 droni e un centinaio di missili che causarono sostanzialmente danni materiali, con il chiaro intento di evitare una guerra totale con Israele – e, di conseguenza, con gli Stati Uniti. Con Washington, e malgrado il precedente del 2018, quando lo stesso Donald Trump si era ritirato dall’accordo nucleare del 2015 rafforzando le sanzioni economiche, la Repubblica islamica aveva accettato di sedersi al tavolo dei negoziati mostrando la propria volontà di portare a termine le trattative. Ed è proprio nel momento in cui erano in corso le trattative con Washington e gli Stati europei che il Paese è stato bombardato, il che non impedisce all’Occidente di chiedergli di tornare ad un tavolo dei negoziati che non aveva mai abbandonato. E così è stato. Per ironia della sorte, è stato l’Iran a sottolineare la violazione da parte di Washington del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite.
In questo momento, dopo le esitazioni e retromarce mediatiche di Donald Trump, gli Stati Uniti si impegnano ufficialmente in questa guerra al fianco di Israele, una cosa è chiara: tutti i regimi autoritari della regione, da Teheran a Riyadh, aspirano alla stabilità e condannano i massacri e gli attacchi israeliani da Gaza all’Iran, passando per il Libano e la Siria. C’è una crescente preoccupazione di fronte a un Medio Oriente dominato da un Israele sicuro di sé e prepotente, che ha perso ogni senso della misura. Quanto alle democrazie occidentali e all’Unione europea, sostengono il genocidio in corso a Gaza, nonostante le dichiarazioni concilianti di alcuni Paesi, rifiutandosi di prendere sanzioni contro chi lo sta mettendo in atto. L’abisso in cui Israele sta facendo precipitare la regione rende sempre più acuta la dissonanza tra i valori che vengono proclamati e le loro politiche.
La vera barbarie
Giustificare l’apertura di un nuovo fronte da parte di Israele invocando il principio della guerra preventiva, sostenerlo militarmente (gli Stati Uniti) e politicamente (la Francia e più in generale l’Unione Europea), contribuendo al contempo a rendere invisibile il genocidio in corso a Gaza e rifiutando di prendere qualsiasi misura o sanzione contro uno Stato, è questa la vera barbarie. Non è opera del “regime dei mullah”, ma delle democrazie occidentali.
L’Occidente ha la memoria corta. Alla vigilia della guerra contro l’Iraq del 2003, i leader americani avevano annunciato che i loro soldati sarebbero stati accolti con dei fiori e gli stessi intellettuali europei, che oggi sostengono Donald Trump e Israele, promettevano un futuro roseo per l’Iraq. Il risultato è stato una guerra interminabile, la distruzione dello Stato iracheno e centinaia di migliaia di vittime.
Come scriveva lo storico delle idee Tzvetan Todorov, che vent’anni fa aveva denunciato le guerre per il cambio di regime in Medio Oriente in nome del “messianismo del Bene”:
È tempo di cambiare la nostra visione: la “comunità internazionale” non si riduce più al blocco occidentale, l’era dell’egemonia universale di un unico gruppo di Paesi è finita. Giocare a fare la forza dell’ordine del mondo non è né possibile né auspicabile; un equilibrio multipolare, pur non essendo una panacea, apre delle prospettive migliori. Un intervento militare provoca sempre vittime e innumerevoli altri danni. […] Sradicare il male dalla superficie della Terra è un obiettivo irraggiungibile, accontentiamoci di essere pronti a respingere qualsiasi aggressione. Il genocidio dei nostri vicini può giustificare un’eccezione a questa regola; purtroppo, non siamo intervenuti durante gli ultimi genocidi, in Cambogia e in Ruanda, mentre abbiamo invocato falsi genocidi per giustificare i nostri interventi altrove1.
1Tzvetan Todorov, “La démocratie par les armes” in Lire et vivre, Robert Laffont/Versilio, 2018.