
Siamo abituati a guardare il mondo attraverso la lente dello specismo, un paradigma che assegna all’essere umano un ruolo privilegiato e superiore, basato sulla convinzione che l’intelligenza e la creatività umana ci rendano unici. Questa visione antropocentrica è strettamente legata ad un’idea di progresso e civilizzazione, dove il «superiore» si misura con la capacità di manipolare l’ambiente, produrre tecnologie straordinarie attraverso industrializzazione di massa, e costruire società complesse e cumulative. Tuttavia, questa concezione si scontra con gli scenari contraddittori e pressoché distopici che segnano il nostro tempo di profonde disuguaglianze globali.
Il Mediterraneo arboreo risponde alla distopia dell’Antropocene
Ne Il Gelso di Gerusalemme, pubblicato a settembre 2024 per Feltrinelli, Paola Caridi si concentra sull’Asia occidentale e il Mediterraneo allargato, a partire dal 7 ottobre 2023, che definisce l’annus horribilis. In questo giorno e per centinaia di giorni a seguire, la violenza e la distruzione del genocidio in Palestina si sono abbattute su tutto, colpendo sia esseri umani che non umani. Il contesto coloniale, che la questione palestinese ha riattivato in modo più intenso, ci ha costretti ad affrontare una nuova realtà: un mondo non solo fuori controllo dal punto di vista giuridico e politico, ma che, alla luce dei fallimenti umani rivelati nelle immagini strazianti provenienti da Gaza per mesi, mette esistenzialmente in discussione anche noi e i nostri sistemi complessi.
In un contesto come questo, forse è il momento di interrogarsi sulla validità dei nostri paradigmi dominanti. In che misura la nostra intelligenza, saccenza e tracotanza ci rendono veramente “superiori”? E soprattutto, quanto la nostra convinzione di essere al centro di tutto ha condotto a una visione distorta che ci fa credere che solo noi, come esseri umani, abbiamo valore e significato intrinseco? Da tale distorsione emergono pratiche insostenibili, a cui siamo oggi di fronte, che non solo gerarchizzano il non umano, ma anche gli esseri umani tra di loro. Con il 2024 ormai confermato come l’anno più caldo della storia, forse abbiamo bisogno di tacere e spostare lo sguardo su storie altrettanto rilevanti.
In questo volume, Paola Caridi ci invita a intraprendere un viaggio di riflessione e consapevolezza, dove la prospettiva antropocentrica viene messa in discussione guardando alle conseguenze che gli umani comportano sul mondo vegetale. In questo viaggio, non sono gli esseri umani i protagonisti, ma dei non-umani indispensabili: gli alberi. Gli alberi, infatti, non sono solo entità passivamente soggette alla volontà umana ma hanno una loro genealogia e occupano un ruolo vitale nella Storia del Mediterraneo. Caridi ci accompagna in una narrazione poetica e piacevole quanto rigorosa, in cui gli alberi diventano testimoni di trasformazioni storiche, economiche e sociali.
Le Radici del Potere: Colonialismo Botanico, Resistenza e Sfruttamento
Nel corso del libro, l’autrice ci invita a guardare gli alberi non solo come entità naturali, ma come testimoni e attori di una storia collettiva che non possiamo ignorare. Questi alberi sono soggetti in un racconto che intreccia potere, resistenza e sfruttamento, dove ogni albero rappresenta una memoria e un simbolo, un riflesso delle lotte e dei fallimenti dell’umanità.
Il volume apre con i gelsi e i tut di cui ambo le sponde del Mediterraneo vantano colture e ricordi. Successivamente i sicomori nella loro maestosità, ci riportano in un itinerario che si concentra sul ruolo sociale e ospitale delle piante. In Palestina, più precisamente a Yaffa gli alberi di arancio Shamuti sono diventati simbolo di prosperità economica, contribuendo enormemente all’industria agricola e agli scambi commerciali. Questi alberi ci ricordano un’esistenza pre-israeliana, non solo di una terra chiamata Palestina, ma anche di una popolazione di contadini e commercianti che permisero la crescita e la prosperità della città sfatando diversi miti di “terre impopolate” e di deserti che andavano fatti fiorire.
Yaffa, infatti durante tutto il diciannovesimo secolo è un centro urbano in espansione e diviene, agli inizi del Novecento, un polo di scambi economici e culturali, un crocevia anche per intellettuali, un luogo in cui la libertà dell’epoca pre-Nakba consentiva alle comunità palestinesi di beneficiare delle proprie risorse naturali. L’arancio Shamuti, in questo caso, diventa uno dei frutti più conosciuti al mondo, simbolo di un tempo di prosperità agricola e commerciale. Non passerà molto tempo prima che i coloni sionisti prima, e gli israeliani poi, si approprieranno della terra e delle sue risorse, inclusa la mitologica arancia Shamuti.
Gli alberi, attraverso la manipolazione umana, hanno anche assunto forme e sviluppi paradossali, sono stati strumento di occupazione e revisionismo. Come nel caso dei pini piantati lungo l’autostrada n. 1, che collega Tel Aviv a Gerusalemme, dal Jewish National Fund nel contesto della pulizia etnica del 1948, sono la prova tangibile di come la natura stessa venga usata come strumento di legittimazione di un ordine politico. Il paesaggio che vediamo oggi, con la sua distesa di conifere innaturali ha causato gravi danni ecologici in un terreno non adatto alla loro presenza. Vaste aree di questi alberi sono infatti bruciate nel 2021 in disastrosi incendi estivi1.
In questo curioso viaggio ispirato dai lavori di Amitav Ghosh2, Caridi lascia che sia la storia a parlare. Alcuni alberi, con i loro frutti, hanno garantito prosperità e scambi commerciali, mentre altri, che non offrivano frutti commestibili, sono stati segno di penuria e carestia. Gli alberi, dunque, non sono stati solo un punto di riferimento ecologico, ma anche culturale, economico e simbolico, capaci di influenzare il destino di intere popolazioni. Un esempio emblematico è quello della carestia che colpisce il Libano agli inizi del ventesimo secolo, quando l’unica coltivazione disponibile era quella dei gelsi per i bachi da seta, I cui commerci vengono improvvisamente arrestatia causa della Prima Guerra Mondiale. La carestia colpì duramente la popolazione, rimasta con montagne di gelsi un coltura non di certo adeguata a sfamare migliaia di persone.
Infine, non possiamo ignorare la storia recente dei massacri di alberi che hanno segnato le proteste e le lotte di resistenza. Le rivolte di Gezi Park in Turchia ci offrono un altro esempio di come l’albero diventi il simbolo di una battaglia per la dignità contro un modello di urbanizzazione che spazza via le voci dei cittadini, sradicando anche il verde dalle città in nome di una modernizzazione cieca. La violenza contro gli spazi verdi in questo contesto non è solo un atto di oppressione ambientale, ma anche una metafora di come il potere distrugga non solo le persone, ma anche gli spazi di resistenza e di comunità.
In tutte queste storie, l’albero si presenta come un testimone silenzioso, ma carico di significato: dal gelso testimone della fame alle conifere che mascherano un passato irrisolto; dall’albero che simbolizza la prosperità alla pianta che diventa un’arma nella guerra politica. Gli alberi sono, quindi, portatori di significati molteplici, e la loro presenza nel paesaggio non è mai neutra. Sono indicatori, metafore e, in alcuni casi, agenti di trasformazione, capaci di riflettere le tensioni più profonde delle società che li coltivano, li distruggono o li venerano.
Per una consapevolezza anticoloniale botanica
In principio fu un erbario anche per l’Italia, per la precisione un Erbario Coloniale, creato a Roma e poi spostato per intero nel 1914 a Firenze nel tentativo – riuscito – di costruire una vera e propria botanica, seguita poi da un’“agricoltura coloniale”. Il colonialismo italiano, il “grande rimosso” dell’Italia dal punto di vista morale e storico, non gioca infatti solo con gli umani.
Nel riflettere sull’orto coloniale e sulla funzione degli orti botanici, nell’ultima parte del libro Paola Caridi ci invita a interrogare la natura di questi giardini, che vengono menzionati ripetutamente nel corso del volume e che, pur apparendo come luoghi di bellezza e conoscenza, hanno spesso svolto il ruolo di veri e propri strumenti di colonialismo botanico. In un certo senso, questi spazi verdi, che sembrano offrire una visione armoniosa della natura, sono stati storicamente luoghi dove si è messa in atto una sistematica appropriazione delle risorse naturali, un tentativo di dominio sulla terra attraverso la raccolta e la catalogazione delle piante. In questo processo, le comunità indigene, che avevano tradizioni e pratiche millenarie di cura e utilizzo delle piante, sono state emarginate e spesso privatizzate della loro conoscenza, mentre le identità culturali locali sono state sistematicamente ignorate o distrutte.
Il colonialismo botanico non si è limitato alla sottrazione materiale delle risorse naturali, ma ha anche comportato una violenza epistemologica, un tentativo di cancellare e rimpiazzare le visioni del mondo e le conoscenze ancestrali con quelle imposte dalle potenze imperialistiche, salvo poi beneficiarne dell’esotismo nella métropole. In un certo senso, questi giardini sono divenuti luoghi di potere, dove la natura veniva sottoposta a una logica di dominazione, come se fosse qualcosa da possedere e controllare, anziché un’entità con cui interagire in modo rispettoso e reciproco. Come tutte le potenze coloniali, l’Italia non è esente, al contrario di come si tenda a dipingerla nei programmi scolastici, e nel dibattito pubblico nostrano. Vi sono state infatti scuole agrarie coloniali fin dia primi anni del Novecento dedite a formare i colonizzatori nel Corno d’Africa e in Libia. L’Italia, dunque, ha partecipato all’accumulo di capitale botanico altrui, esattamente con gli altri imperi.
Tuttavia, il discorso di Caridi non si limita a un’analisi storica di questi giardini coloniali, ma ci invita anche a riflettere sul loro ruolo contemporaneo, sul nostro rapporto con gli alberi e con la natura che ci circonda. Gli alberi, che nei secoli sono stati visti principalmente come risorse da sfruttare o come simboli di potere, in realtà svolgono anche un altro ruolo fondamentale nella nostra vita quotidiana. Non sono solo un bene materiale da cui trarre frutto, ma sono anche spazi di rifugio e di conforto. In un mondo sempre più alienante, in cui la nostra connessione con la natura si fa sempre più labile, gli alberi sono diventati luoghi di ricordo e riflessione, in cui possiamo cercare un equilibrio che spesso manca nelle nostre vite frenetiche e consumistiche. Ci nutriamo dei loro frutti, ma cerchiamo anche rifugio sotto le loro fronde, come se il loro silenzio e la loro presenza costante fossero una forma di risposta allo smarrimento postmoderno.
La riflessione di Caridi ci porta, quindi, a ripensare il nostro rapporto con la natura, non come una relazione di possesso, ma come una relazione di rispetto, in cui anche gli esseri non-umani hanno una dignità che dobbiamo riconoscere e valorizzare. Non si tratta solo di essere consapevoli del nostro impatto sull’ambiente, ma di riconoscere la dignità intrinseca degli altri esseri viventi, e la loro capacità di essere parte di un ecosistema complesso che ci interconnette tutti, umani e non-umani.
In definitiva, il racconto di Caridi ci invita a rivedere la nostra posizione nel mondo, a superare quella visione antropocentrica e specista che ha dominato la storia dell’umanità. Gli alberi e gli altri esseri viventi non sono semplicemente “strumenti” al nostro servizio; sono, piuttosto, compagni di viaggio in un viaggio ecologico che ci sfida a riconsiderare il nostro posto nell’universo. Le loro radici, che affondano nella terra, sono capaci di svelare legami invisibili tra le nostre esistenze e quelle della terra, ma anche tra le contraddizioni che definiscono la nostra storia. Caridi ci sfida a riconsiderare il significato di queste radici comuni, che non sono solo metafore poetiche, ma un invito a riconoscere la nostra interconnessione con la terra e con i suoi abitanti, umani e non-umani, in un’ottica di solidarietà e responsabilità ecologica.
Con il suo stile, che unisce rigore storico e sensibilità ecologica, Caridi ci propone una visione originale della storia mediterranea. Una storia in cui gli alberi non sono più semplicemente il paesaggio di sfondo a eventi politici e sociali, ma diventano protagonisti di una narrazione che include la terra e le sue contraddizioni. Gli alberi, attraverso le loro radici, ci interrogano continuamente sulla nostra responsabilità verso il mondo naturale e, in definitiva, verso il nostro stesso futuro.