Mondo arabo. Quale cultura in uno spazio politico limitato?

Le nuove icone dell’hip hop italiano cantano in arabo

In Italia chi nasce da genitori stranieri è intrappolato in un limbo normativo che prevede un percorso lungo, complesso e costoso per ottenere la cittadinanza. Alcuni giovani di origine nordafricana denunciano la propria emarginazione attraverso la musica, diventata un potente strumento di riscatto e integrazione in un contesto sempre più radicalizzato.

Due artisti sul palco: uno con capelli ricci e l'altro con un cappello nero, entrambi in abbigliamento sportivo.
15 dicembre 2024. Ghali (a sinistra) e Baby Gang (a destra) a un concerto

Ragazzi dai fisici scolpiti ondeggiano con sguardi truci e pesanti collane d’oro al collo. Sfoggiano vistosi anelli e orologi di marca, tatuaggi, abiti griffati e brillanti incastonati tra i denti. Impugnano armi, scambiano soldi con hashish e cocaina ed esibiscono donne seminude come fossero trofei.

Ogni fotogramma dei videoclip rap e trap sembra un inno alla criminalità in un’atmosfera resa surreale dai beat lenti, carichi di tensione, e i ritmi sincopati delle drum machine. Alle melodie minimaliste create con il sintetizzatore si accompagnano rime perfette che incastrano italiano ed espressioni gergali, slang americano e parole in spagnolo e francese ma, soprattutto, in arabo.

Belek (attenzione), fluss (soldi), halal (consentito), haram (proibito), hebs (prigione), kho (fratello), wallah (giuro) sono termini sempre più frequenti nella new wave dell’hip hop italiana, poiché molti dei suoi protagonisti hanno origini nordafricane. I loro pezzi, in vetta alle classifiche per settimane, hanno milioni di visualizzazioni su YouTube e i concerti, quasi sempre sold out, sono a volte trasmessi in diretta televisiva.

Alcuni sono stati in carcere o in case-famiglia e nei testi raccontano del proprio passato di emarginazione nelle periferie degradate dove spaccio e violenza sembrano l’unico modo per sopravvivere. Ostentare ricchezza e benessere economico è, quindi, un simbolo di riscatto dall’esclusione sociale e dalla repressione classista di uno stato che non li ha mai riconosciuti come figli propri e che tuttora continua a negare loro diritti, tutele e opportunità.

Come “immigrati di seconda generazione”, ossia nati qui da genitori stranieri o arrivati ancora minorenni, questi ragazzi pur sentendosi a tutti gli effetti italiani per lingua, cultura e legame con il territorio per le istituzioni sono, infatti, “cittadini di serie B”.

Il primo diritto di cui sono privi è proprio la cittadinanza, che nel paese dello ius sanguinis (dal latino: “diritto di sangue”) è conferita solo per discendenza o filiazione. Ereditato dalla legislazione civile precedente all’unità nazionale, questo modello normativo mirava inizialmente a mantenere il legame tra gli emigranti e la Madrepatria. Riconfermato nella prima legge sulla cittadinanza del 1912 e successivamente dalla legge 91 del 1992, che lo sottopose a condizioni ancor più rigorose, lo ius sanguinis impone tuttora alle persone di origine straniera di richiedere la cittadinanza dopo 10 anni di residenza regolare e ininterrotta nel paese o a 18 anni di età. Ma il procedimento è così complesso, lungo e costoso che in pochi riescono a concluderlo.

Nel tempo sono state presentate numerose proposte di legge a sostegno dello ius soli (“diritto basato sull’appartenenza al territorio”), ma si sono tutte arenate e ancora oggi oltre 1 milione di persone vive senza alcun riconoscimento formale da parte dello Stato e senza rappresentazione politica, linguistica o culturale.

I nuovi rapper e trapper con background migratorio provano a dar voce a questo popolo dimenticato.

Dai pionieri alle nuove icone trap

Nato in Marocco e cresciuto a Bologna negli anni Novanta, Lama Islam è stato il primo a mescolare nei suoi pezzi arabo e italiano per denunciare le pesanti discriminazioni razziali subite ogni giorno.

“Mi è capitato che la polizia mi chiedesse di esibire il permesso di soggiorno, anche se nella carta di identità c’era scritto che ho la cittadinanza italiana”, racconta. “Sembra che lo facciano apposta per ricordarti che sei diverso. In banca e negli sportelli pubblici mi chiedono ancora se capisco la loro lingua, che è la mia”.

Amir Issaa, invece, è nato a Roma, nel quartiere multietnico di Torpignattara, da padre egiziano e madre italiana. Dopo un’infanzia caratterizzata da umiliazioni e ristrettezze æeconomiche scopre il rap, che diventa subito un mezzo per raccontare la propria storia. Collabora con diverse associazioni impegnate nel sociale, anima laboratori musicali e workshop di scrittura nei carceri minorili portando avanti campagne di sensibilizzazione contro il razzismo.

Gran parte del suo lavoro, come artista e come attivista, si intreccia alla lotta per il riconoscimento della cittadinanza alle seconde generazioni: nel 2021 lancia su Change.org la petizione “Caro Presidente” con un video-appello per promuovere lo ius soli, raccogliendo in pochi giorni migliaia di firme. Oggi diffonde il rap come forma didattica nelle scuole e nelle università in Italia e all’estero.

Amir Issaa, « Caro presidente » (2012)

Ma è specialmente la trap, sottogenere del rap, a offrire terreno fertile alla proliferazione di codici identitari inediti, poliglotti, multietnici e globali dopo che Oussama Laanbi, detto Maruego (“marocchino”), l’ha introdotta in Italia. Nato a Berrechid nel 1992 e cresciuto nei sobborghi di Milano solo con la madre ( il padre era in carcere), vive tra emarginazione sociale e gravi disagi economici. Lavora come garzone in una macelleria finché diventa famoso grazie ad alcuni brani dal sound innovativo: una miscela esplosiva tra rap, musica elettronica e contaminazioni globali, dagli influssi francesi al raï algerino.

Maruego, « Per i miei Kho » (2015)

Un altro apprezzato trapper milanese è Sami Abou El Hassan, alias Sacky, di madre marocchina e padre egiziano. Passa l’adolescenza tra piccole condanne e periodi di detenzione e si avvicina alla musica grazie a un sacerdote conosciuto in una comunità di recupero, Don Claudio Brugio, lo stesso che aiuterà anche Zaccaria Mouhib, in arte Baby Gang, a lasciarsi alle spalle furti e rapine per consacrarsi all’arte. Questo giovane di origine marocchina, infatti, dopo anni di alcolismo e criminalità, grazie a lui pubblica i primi singoli di successo, alcuni registrati sotto scorta. Nel 2021 esce il suo primo album, Delinquente, dove descrive la vita di strada di una generazione sottorappresentata, e che molti preferirebbero ignorare, diventandone il portavoce con parole crude e dirette.

Baby Gang, « Alcott Zara Bershka » (2021)

Una donna in un mondo di uomini

Ma in questo contesto prevalentemente maschile e pieno di stereotipi sessisti, c’è anche chi prova a ribaltare l’immaginario in chiave femminista, come Chadia Darnakh Rodríguez. Nata in Spagna da genitori marocchini e cresciuta nei sobborghi di Torino, la cantante da piccola vive esperienze molto dure, tra cui il bullismo, e in adolescenza incorre in alcuni procedimenti giudiziari.

Nel 2018 è la prima ragazza a comparire sulla copertina di una playlist rap su Spotify e oggi è un’artista affermata della Sony Music. Fumo bianco, il secondo estratto dal suo EP di debutto, “Avere 20 anni” (2018), vende 25mila copie e il singolo contro il body shaming Bella così (2020) vince il disco d’oro. La clip, realizzata insieme alla cantautrice Federica Carta, coinvolge 21 donne di età diverse ed è stata lanciata sui social con tre video di vittime di violenza fisica o psicologica.

Chadia Rodriguez feat. Federica Carta, « Bella Così » (2020)

Il caso Ghali

Il milanese di origine tunisina Ghali Amdouni merita un discorso a parte. Con i suoi inconfondibili dreadlock e l’andatura dinoccolata, questo trentenne alto quasi due metri colpisce, infatti, per i suoi modi gentili, per gli eccentrici travestimenti che deviano dal consueto codice machista trap ma, soprattutto, per il suo forte impegno sociale. Ha un’infanzia difficile: il padre è in prigione e la madre a stento riesce a garantirgli un alloggio dignitoso. Dopo sfratti e traslochi continui, ottengono una casa popolare nel quartiere periferico di Baggio, che in quegli anni pullula di giovani talenti musicali, tra jam session e free style.

Qui scopre il rap grazie al film di Eminem “8 Miles” e a un amico tunisino che gli passa i pezzi di Joe Cassano, icona hip hop bolognese, e di altri rapper italiani. Per lui è una rivelazione ascoltare quella musica dirompente nella sua lingua e comincia a registrare i primi CD demo che distribuisce agli amici nel parchetto sotto casa.

“Mi sono innamorato del rap italiano ma non mi sentivo rappresentato; non parlavano specificamente di me e sapevo che i figli degli immigrati stavano iniziando a esistere in Italia ma che nessuno raccontava la loro storia”, ha riferito al New York Times.

Nel brano che lo consacra al successo si fa portavoce del loro disagio, “Io TVB Cara Italia, sei la mia dolce metà |quando mi dicono Vai a casa rispondo Sono già qui | Ti amo, cara Italia”, restituendo una fotografia tristemente realista dello stato culturale e politico del paese, stretto nella morsa del populismo e della violenta retorica anti-immigrazione.

Ninna Nanna, invece, è dedicata alla madre, alla quale lo lega un affetto profondissimo e un’enorme gratitudine: per anni, soli contro il mondo, dormono per terra cucinando su un fornelletto da campeggio, poi condividono lo stesso letto finché lui, diventato una celebrità, riesce finalmente a comprare una casa tutta per sé. Quando, in un memorabile concerto del 2018, la invita a salire sul palco sventolando il tricolore commuove migliaia di fan toccando anche i cuori di chi lo segue in diretta da casa. A differenza di altri rapper, infatti, Ghali, che lo scrittore Roberto Saviano considera “uno dei maggiori poeti di lingua italiana”, non intende provocare né dividere ma sensibilizzare l’opinione pubblica su temi sociali particolarmente forti e urgenti.

In primis, l’immigrazione. In Wily Wily denuncia gli stereotipi contro gli stranieri mentre in Mamma racconta di un giovane tunisino che di notte progetta la sua traversata indossando la giacca della nazionale italiana. Ma il suo impegno prosegue anche lontano dai riflettori: nel 2022 dona all’organizzazione no-profit Mediterranea Saving Humans un gommone a scafo rigido per effettuare i salvataggi in mare, gesto che ha definito “la cosa più rap che si possa fare”. Poi lancia una campagna di crowdfunding per acquistarne un altro a cui aderiscono quasi esclusivamente figli di immigrati come lui. “Devi vivere questa cosa sulla tua pelle per poterla vedere?”, commenterà poco dopo sui social.

All’edizione 2024 del Festival di Sanremo, il più importante programma televisivo dedicato alla canzone italiana, Ghali propone un brano sulla guerra a Gaza e dopo l’esibizione lancia l’appello “Stop al genocidio”, suscitando l’indignazione della comunità ebraica.

Verso una nuova Italia?

Dopo le Olimpiadi di Parigi che hanno mostrato al mondo il volto di un paese multietnico in continua trasformazione, è partita la raccolta firme per un referendum abrogativo che propone di dimezzare il periodo di residenza previsto per le persone maggiorenni non comunitarie per richiedere la cittadinanza. In poche settimane sono state raccolte 637.487 firme e a fine gennaio la Corte Costituzionale ha giudicato la proposta ammissibile. Il quesito, insieme ad altri quattro riguardanti i diritti dei lavoratori, è confluito nella consultazione che ha avuto luogo l’8 e il 9 giugno, ma l’elevato astensionismo, vergognosamente auspicato dal governo di estrema destra, ha impedito di raggiungere il quorum. Le urne vuote sono il simbolo di una democrazia profondamente in crisi che rischia di crollare sotto i colpi di una retorica populista sempre più aggressiva e spregiudicata.

“Tu sogni l’America, io sogno l’Italia. La nuova Italia”, canta Ghali in Bayna. E noi la sogniamo con lui.