
Lunedì 7 aprile 2025.
Ieri c’è stato il matrimonio di Catherine, la figlia dei nostri vicini che abitano nella nostra torre. Pur essendo musulmana come i genitori, le hanno dato questo nome in omaggio alla Francia, come talvolta capita in Palestina. Catherine fa la dentista, come suo marito Ihab. La loro cerimonia era prevista per ottobre 2023, avevano affittato la sala per la festa, tutto era pronto. Ma poi è scoppiata la guerra e tutto è stato cancellato. Volevano aspettare la fine della guerra, e così hanno rinviato più volte le nozze. Ma visto che la guerra sembra non avere fine, hanno deciso di sposarsi comunque. Ma non è stato un matrimonio come l’intendiamo noi, con diverse feste secondo la tradizione. È questo il vero momento del matrimonio. L’atto di matrimonio effettivo era stato firmato tre anni prima davanti al tribunale religioso, come consuetudine. In molti casi, le feste non sono miste. Il giorno prima, gli uomini delle due famiglie, i loro amici e i loro vicini, festeggiano fuori, per strada. A seconda del budget, viene invitato un cantante o un DJ, e la festa va avanti per una parte della serata. Al termine, viene offerto a tutti i presenti un piccolo pasto nei piatti, la summāqìya .
“Non c’è stata alcuna festa”
Il giorno dopo, viene offerto il pranzo a tutto il quartiere. Ci sono centinaia di persone. Dopo ci sono i servizi fotografici, per tutti e due gli sposi. Di solito, le foto si scattano nei cosiddetti chalet, ville non lontane dal mare, con piscina, che vengono affittate per queste occasioni o per i weekend. Anche le donne festeggiano, decorandosi mani e piedi con l’henné, o cantando tutte insieme. Poi c’è la festa principale, dove si va con auto coperte di fiori, tutti vestiti eleganti per l’occasione. È il regno delle donne, qui possono indossare la minigonna se lo desiderano, rimettendosi il velo nuziale quando gli uomini delle due famiglie vengono a fare il loro “ingresso” per pochi istanti.
Ma ieri non c’è stato nulla di tutto questo. Solo un raduno di poche decine di membri delle due famiglie. E, naturalmente, non c’è stata alcuna festa di maschi e femmine, niente henné e nessun grande pranzo perché non c’era nulla da offrire, né bevande, né yogurt, né pollo, né carne come sempre, e nemmeno riso. Tutto questo non esiste più.
Per di più, il matrimonio era fissato per le 14, perché la famiglia di Ihab doveva venire da Khan Yunis, nel sud, per la strada Al-Rashid, la strada costiera, l’unica ancora aperta. L’asse principale, la strada Salah al-Din, è bloccato da quando Netanyahu ha rotto il cessate il fuoco. A causa della chiusura della strada costiera alle auto, i familiari di Ihab hanno dovuto fare tutto il viaggio ammassati su carretti trainati da tuk-tuk, pittoreschi tre ruote, tutti insieme bambini, uomini e donne di ogni età. Generalmente, è tutta la famiglia allargata, zii, zie, cugini, che viaggia in autobus, ma questa volta erano solo sei o sette, il padre di Ihab, sua madre e i suoi fratelli.
“Di solito, per l’acconciatura dei capelli vanno tutte le donne insieme”
Si sono riuniti nell’appartamento della sposa, nella nostra torre. Al mattino, ho accompagnato Catherine dalla parrucchiera. Siamo dovuti andare a casa sua, per avere un po’ di elettricità grazie ai pannelli solari. Il suo salone era chiuso, quindi non sembrava una festa: di solito, per l’acconciatura dei capelli vanno tutte le donne insieme, la madre, le zie, le sorelle... Lì, invece, c’erano solo Catherine e due amiche. Poi, ho accompagnato i due sposi, Catherine nel suo abito da sposa, per il servizio fotografico alla “Villa Yasmine” dove abbiamo incontrato altre tre coppie. Poi siamo andati alla torre, loro in una macchina senza fiori, senza decorazioni, io nella vecchia Mercedes del mio amico Hassoun.
L’appartamento della sposa si trova all’undicesimo piano. Abbiamo chiesto aiuto a un uno che abita nel quartiere che ha un grande generatore, grazie al quale vende energia elettrica. E, per la prima volta dall’inizio della guerra, l’ascensore ha funzionato! Gli sposi l’hanno preso, poi l’ascensore si è fermato di nuovo. Amici e vicini sono saliti per congratularsi con gli sposi, la piccola festa è durata due ore e mezza. Non c’era niente da mangiare, perché, è da un mese che Israele ha deciso il blocco degli aiuti alimentari. Poi quando tutti se ne sono andati, ho accompagnato i novelli sposi a casa, nella vicina Shuhada Street.
È finita così. È stata una giornata strana. Mentre accompagnavo gli sposi da un posto all’altro, ricevevo continuamente sul mio telefono notizie di morti e di massacri che non si fermano. Quanti morti ci sono stati durante queste festività ridotte? Quanti attacchi diretti nelle zone di evacuazione dove sono accalcati gli sfollati? E mi chiedevo: ma cosa siamo diventati? Siamo ancora normali? Sento tutte queste morti, e allo stesso tempo mi trovo in una situazione che normalmente dovrebbe essere un’occasione di gioia. E mi domandavo: abbiamo ancora una stabilità psicologica? È un modo per resistere, festeggiare durante i massacri? Purtroppo, non viviamo il dolore come prima. Per sopravvivere in questa guerra spietata, in questo genocidio, per sfuggire al pensiero costante di massacri e morti, abbiamo dovuto alzare la nostra soglia di sensibilità al dolore.

Sotto il cielo dei massacri
Ma, allo stesso tempo, c’è un matrimonio. La gente cerca di continuare a vivere, di celebrare l’evento con discrezione, è un modo per dire che, per noi, la vita va avanti. È stato questo desiderio a spingere me e Sabah ad avere un altro figlio. In molti mi hanno detto: “non è questo il momento”. Ma era il nostro modo per dire a chi vuole disumanizzarci che siamo pur sempre esseri umani. Continuiamo a sposarci, a dare alla luce figli, continuiamo ad essere felici o ad essere tristi. Siamo esseri viventi come tutti gli altri. Durante la prima Intifada, quando c’era un martire, tutto il quartiere era triste, e tutti aiutavano la sua famiglia. La gente sgattaiolava da una casa all’altra sfidando il coprifuoco, solo per portare del cibo alla famiglia che aveva perso uno dei suoi membri. Non osavamo nemmeno accendere la TV per osservare il lutto. Questo valeva anche per chi moriva per una malattia. È un’usanza che è stata osservata fino ai primi giorni della seconda Intifada. I matrimoni non venivano celebrati durante il lutto.
Terminato il lutto, gli sposi venivano portati in ambulanza, sempre in segno di rispetto. C’era un grande rispetto e tristezza per il sangue versato. Oggi tutto è cambiato. È dovuto al numero di vittime nei bombardamenti, nei massacri e nelle “israelerie” a cui ci siamo abituati? Tutto il mondo si è abituato? I massacri fanno parte della nostra vita quotidiana. Ed è proprio per questo che bisogna continuare a vivere. Di conseguenza, facciamo figli, ci sposiamo, esiste l’amore e il matrimonio. La vita esiste anche sotto le macerie e sotto il cielo dei massacri. Al tempo della prima e della seconda Intifada, c’erano una decina di morti al mese, o poco più. Ma qui, stiamo parlando di centinaia di morti al giorno, migliaia di morti a settimana. Non voglio dire che è diventato normale, ma è quello che viviamo ogni giorno. Non siamo diventati anormali, combattiamo i massacri con la gioia. Contrapporre la vita al posto della morte, l’amore all’odio, l’umanità alla disumanità. Congratulazioni per il vostro matrimonio, Catherine! Spero che lei e Ihab abbiano una vita migliore, che abbiano dei figli. Bambini a cui auguro di vivere in condizioni normali, con una vita felice e tutto ciò che un essere umano merita di vivere. Spero che la nostra resistenza continui, che continueremo a sposarci, ad avere figli, radicati nella terra di Palestina come gli ulivi che crescono a poco a poco, con nuovi rami e nuovi frutti.
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